La pressione fiscale non si vede ma si paga
LAVORO

La pressione fiscale non si vede ma si paga

MARCO LEONARDI LEONZIO RIZZO

Torniamo sul tema della pressione fiscale, uno dei più importanti e controversi di questi anni. Il Governo nega l’aumento, sostenendo che la riforma dell’IRPEF ha ridotto le aliquote, soprattutto per i redditi medio-bassi. L’opposizione, invece, preferisce deviare il dibattito su altri terreni – il Jobs Act di dieci anni fa, per esempio – evitando di denunciare un fatto evidente. Chi guadagna a partire da 35.000 euro lordi paga oggi, in termini complessivi, più tasse di prima.

E questo non solo per effetto del Fiscal Drag. La colpa è anche degli enti locali – Regioni e Comuni. Hanno aumentato in modo significativo le addizionali IRPEF. Oggi, quindi, facciamo un esempio molto pratico, basato su due cedolini di docenti universitari. Spieghiamo come funziona davvero la pressione fiscale “reale”.

Negli ultimi due anni, molte amministrazioni locali si sono viste costrette ad aumentare le proprie aliquote IRPEF per far fronte all’impennata dei costi correnti. L’inflazione ha alzato il prezzo delle forniture energetiche e ha imposto un adeguamento – per quanto parziale – degli stipendi pubblici. Regioni e Comuni finanziano la spesa con entrate proprie (IMU, IRAP, addizionali IRPEF) e con trasferimenti statali. Ma questi trasferimenti non sono indicizzati all’inflazione e non bastano più. Lo abbiamo documentato in un altro articolo su questo giornale. La cosa vale non solo per i Comuni ma anche per le Regioni. Spesso scaricano sulle addizionali IRPEF i mancati aumenti dei trasferimenti del fondo sanitario nazionale.

Il risparmio evapora di fronte a un aggravio di spesa

Per questo motivo, molte città (Torino, Milano, Bologna, Roma, Napoli, Bari) hanno mantenuto le addizionali al massimo consentito di 0.8%. Altre, come Ferrara, hanno ritoccato le aliquote colpendo anche i redditi più bassi. Guardiamo le Regioni, nel 2025 è toccato a Emilia-Romagna e Abruzzo. Nel 2024 Liguria, Molise e Toscana avevano già aumentato l’addizionale regionale al 3.3% accanto a Lazio, Piemonte e Campania. Presto seguiranno altre Regioni, di fronte alla minaccia di dover tagliare le spese correnti.

Questi aumenti locali vanificano la tanto celebrata riduzione della pressione fiscale nazionale. È vero che, in media, l’aliquota IRPEF statale è scesa per i redditi medio-bassi. Questo anche grazie all’introduzione di detrazioni in sostituzione del taglio del cuneo fiscale. Ma se si guarda all’imposta complessiva – nazionale, regionale e comunale – il risparmio evapora. In molti casi si trasforma in un aggravio.

Un caso concreto lo dimostra chiaramente. Nel 2025, i docenti universitari hanno ottenuto un aumento del 4,8% per recuperare, almeno in parte, il potere d’acquisto perso con l’inflazione. Tra 2022 e 2024 ha superato il 17%. Esaminiamo due casi: un professore ordinario e un ricercatore di tipo A.

Due casi a confronto, il reale potere d’acquisto

Per il professore ordinario, lo stipendio al lordo dell’IRPEF passa da circa 75.000 a 78.700 euro. Ma l’IRPEF nazionale da pagare cresce del 6,18%, quindi più dell’aumento dello stipendio. A questo si aggiunge un rialzo delle addizionali: +79% quella regionale, +15% quella comunale. Risultato? L’aliquota media complessiva (cioè la quota di reddito che finisce in tasse) passa dal 35,87% al 37,78%, un incremento di quasi 2 punti percentuali. Più della metà dell’aumento in busta paga viene così riassorbito dal fisco. La beffa è duplice, non solo si perde potere reale d’acquisto ma in più si pagano più tasse di prima: cornuti e mazziati direbbero a Napoli.

Per il ricercatore, la situazione è più sfumata. Lo stipendio al lordo dell’IRPEF cresce da 32.900 a 34.400 euro. La riforma fiscale riduce di quasi un punto l’aliquota IRPEF statale, grazie alla detrazione di 690, e in teoria ci sarebbe anche un piccolo beneficio netto. Ma gli aumenti delle addizionali, +45% la regionale e +27% la comunale, – assorbono quasi tutto il guadagno. L’aliquota media totale rimane quasi invariata: da 22,60% a 22,45%. Di fatto, il lavoratore recupera potere d’acquisto solo per effetto del contratto, non della riforma fiscale.

In questo caso la beffa è una sola. La pressione fiscale in effetti non aumenta ma comunque la perdita di potere d’acquisto è notevole. Di fronte a una inflazione al 17%, due anni dopo si recupera soltanto poco meno del 5% del salario. La contrattazione collettiva nel pubblico impiego, anche se i professori formalmente non sono contrattualizzati, non tiene il passo dell’inflazione da moltissimi anni.

Una visione d’insieme sulla pressione fiscale

Sarebbe ora che il dibattito politico affrontasse questo tema con la serietà che merita. Perché la pressione fiscale non è solo una questione di aliquote statali, ma di somma complessiva di prelievi che incidono sul reddito delle famiglie. E perché non si può continuare a parlare di riduzione delle tasse se le buste paga continuano a raccontarci un’altra verità. Un’ultima notazione: tutto questo vale solo per dipendenti e pensionati. Gli autonomi “forfettari” che pagano solo la Flat Tax, non pagano IRPEF né addizionali comunali e regionali.


Pubblicato su Il Foglio il 03.06.25

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