Le barriere bilaterali non tariffarie
MARCO LEONARDI – LEONZIO RIZZO
Per anni parlare apertamente di dazi era quasi una bestemmia nel tempio del libero scambio. Le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) e il clima politico scoraggiavano ogni forma di protezionismo esplicito. Ma la favola secondo cui gli Stati avevano smesso di proteggere i propri mercati non ha mai retto. La protezione c’era eccome, solo che si esercitava sottotraccia. Non erano dazi, ma “non-tariff barriers” — barriere non tariffarie. Negli anni 2000 mentre i dazi scendevano, le barriere non tariffarie salivano e oggi si contano a centinaia nel commercio bilaterale USA-UE e USA- Cina.
Gli Stati Uniti sono stati maestri nell’uso di standard tecnici, norme sanitarie e requisiti di certificazione che rendevano difficile esportare certi beni. Lo facevano soprattutto per proteggere i prodotti degli swing states, gli stati in bilico nelle elezioni presidenziali. Anche l’Europa ha fatto lo stesso: basti pensare al divieto di importazione della carne trattata con ormoni, alle norme sull’etichettatura o alle restrizioni su alcuni cosmetici e farmaci americani.
Poi è arrivato Trump, e ha messo dazi espliciti su acciaio, alluminio, auto e beni strategici. Ora è pronto a introdurre un dazio generalizzato del 10% su tutte le importazioni. L’Europa ha due scelte: reagire o cedere.
Reagire ai dazi americani
Reagire significa colpire le esportazioni USA in settori politicamente sensibili. Un dataset che incrocia i flussi commerciali con il peso politico degli Stati esportatori rivela che oltre metà delle esportazioni americane verso l’Europa riguarda beni fossili o industriali: gas liquido, petrolio, componenti per l’aviazione, macchinari. Settori concentrati in Stati decisivi come Pennsylvania, Georgia, Arizona e North Carolina. Colpire con dazi selettivi il gas naturale liquefatto (GNL), i motori per aerei o i componenti industriali potrebbe avere impatti politici significativi alle prossime elezioni USA. Ci sono però delle controindicazioni serie, per esempio tassare il GNL sarebbe autolesionistico perché ci serve.
Un’alternativa è tassare i giganti digitali con una digital tax o colpire i servizi finanziari. Ma è difficile: la digital tax è ancora oggetto di negoziati internazionali, mentre tassare i servizi finanziari può violare regole WTO e scatenare ritorsioni.
Scegliere la via dell’accomodamento
Una seconda via è l’accomodamento. Cedere qualcosa per evitare una guerra commerciale a tutto campo. Significa comprare più armi e gas americano. Ma questo compromesso ha un costo strategico: meno autonomia militare — perché si dipende dalla difesa USA — e meno autonomia energetica. È un paradosso: Washington ci chiede più indipendenza militare, ma ci impone di comprare proprio le armi da cui dovremmo emanciparci. Sulle forniture belliche e il GNL la dipendenza è in parte inevitabile, basta che non sia troppo lunga e non impedisca l’autonomia Europea.
C’è però una terza via, forse la migliore: usare la crisi per negoziare ciò che Obama cercò con il TTIP. Un accordo per ridurre le barriere non tariffarie al commercio bilaterale. Rivedere alcune nostre restrizioni — senza svendere l’interesse europeo — può essere il compromesso utile per evitare una guerra dei dazi.
Il compromesso utile della terza via
Qualche esempio concreto? Il National Trade Estimate Report on Foreign Trade Barriers dell’USTR (2024) elenca centinaia di barriere europee. In ambito sanitario, l’UE limita l’importazione di dispositivi medici rigenerati o ricondizionati, anche se identici a quelli nuovi. Sono escluse anche tecnologie diagnostiche USA non conformi a certificazioni europee (come certi test per patologie rare). Nei cosmetici, vengono bloccati prodotti contenenti filtri solari approvati dalla FDA ma non riconosciuti dall’EMA. E nei farmaci, l’EMA richiede studi clinici addizionali per prodotti già autorizzati in America, scoraggiandone l’ingresso.
Rimuovere alcune di queste barriere, in modo selettivo e trasparente, potrebbe essere una leva diplomatica importante. Alla fine passeremmo da un mondo con zero dazi e molte non-tariff barriers a uno con un po’ più dazi e un po’ meno barriere regolamentari, con all’incirca lo stesso livello di “protezionismo” di prima. Un second best, certo, ma meglio di una guerra commerciale.
Pubblicato su Il Foglio il 29.04.25