Lascia che io sia ciò che posso essere
LUIGI FAGGIANO
Grazie ad alcuni marchi di successo nell’ambito dell’autismo, si sta diffondendo e consolidando un discorso deviante sulla disabilità legata ai disturbi dello spettro autistico e sugli interventi da fare per le persone che ne sono affette.
La disabilità delle persone autistiche è data dall’interazione tra una diversità psichica e l’ambiente sociale in cui sono inserite. Si tratta di una diversità che, collocata in contesti sociali strutturati secondo comportamenti che richiedono determinate abilità, pone le persone interessate in una situazione di svantaggio. È una situazione che non consente loro di affrontare in modo adeguato quei bisogni dalla cui soddisfazione dipende il loro benessere.
La chiave di volta di ogni discorso sulla disabilità dovrebbe essere la ricerca dell’interpretazione corretta di quei bisogni. Dovrebbe tenere conto sia della specificità della diversità psichica sia della particolare biografia della persona che ne è portatrice. La percezione di sé come persona realizzata è radicata in queste specificità. In genere non corrisponde al comune senso della realizzazione di sé.
Adeguarsi a parametri di una famiglia medio borghese
I discorsi mainstream hanno stravolto l’ordine naturale del discorso sulla disabilità legata ai disturbi dello spettro autistico. Partono dai modelli normali di “vita degna di essere vissuta”. Fanno pensare che, con i giusti interventi sui comportamenti e sui contesti, tutti i “diversamente abili” (ecco un’altra formula linguistica ideologizzante) possono (e sotto sotto debbano) condurre delle vite normali. Potrebbero lavorare, percepire un salario, fare dello sport per eccellere in esso, laurearsi con buoni voti, godere degli affetti. Sono i parametri di una famiglia medio borghese e così via.
Pensando a mio figlio, alle specificità legate alla sua diversità e al suo carattere, inorridisco di fronte alla sua sofferenza. A quanto gli costerebbe doversi adeguare anche a uno soltanto di quei modelli.
