DDL italiano e AI Act europeo
MARCO LEONARDI • ANDREA BOSCARO
Nella guerra dei dazi scatenata da Trump, una delle poche armi, o merci di scambio, in mano all’Europa sono le regole del suo ricco mercato digitale, a patto che abbiano alle proprie spalle un fronte unito. In questa chiave possono essere interpretate anche le recenti sanzioni comminate dalla Commissione Europea ad Apple (500 milioni di euro) e a Meta (200) in ragione del Digital Markets Act.
In questo nuovo scenario di confronto con l’Amministrazione americana può essere commentato il disegno di legge italiano sull’intelligenza artificiale. Approvato dal Senato il 20 marzo 2025 è al momento in discussione alla Camera. Nonostante l’allineamento formale al Regolamento europeo AI Act, il provvedimento presenta diverse contraddizioni.
Mentre l’Italia ha scelto una via normativa autonoma, Francia e Germania hanno preferito un percorso basato sul recepimento e rafforzamento dell’AI Act europeo. Non hanno introdotto leggi parallele potenzialmente disallineate. Questo approccio ha permesso loro di concentrarsi sugli incentivi all’innovazione, sulla formazione e sulla cooperazione industriale. Hanno così evitato il rischio di frammentazione normativa.
La frammentazione istituzionale crea rallentamenti
A livello di governance, la frammentazione istituzionale è evidente senza indicare meccanismi di coordinamento. Il DDL prevede infatti la creazione o l’attribuzione di competenze a numerosi enti: Agenzia per l’Italia Digitale (AgID), Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (ACN), Osservatori presso vari ministeri. Fra questi, è centrale, uno da istituirsi presso il Ministero del Lavoro. Il DDL demanda al Governo ampi margini di delega legislativa (art. 24), anche su temi sensibili come le responsabilità civili e penali legate all’uso illecito di sistemi di IA. Così si alimenta l’incertezza per imprese che necessitano di regole stabili e prevedibili.
Uno degli aspetti più controversi riguarda l’obbligo, all’art. 6, di conservare i dati utilizzati dai sistemi di IA pubblici su server localizzati esclusivamente nel territorio italiano. Questa misura è giustificata dalla necessità di garantire la “sovranità digitale”. Rischia di porsi in contrasto con il principio di libera circolazione dei dati sancito dal diritto dell’UE. Inoltre, potrebbe impedire alle amministrazioni pubbliche di adottare soluzioni tecnologiche già disponibili, rallentando l’adozione di infrastrutture interoperabili e competitive. Nel passaggio del disegno di legge alla Camera questa parte della norma dovrebbe essere rivista.
Il diritto d’autore e le risorse pianificate
Anche il tema del diritto d’autore, affrontato all’art. 25, presenta ambiguità. L’introduzione del criterio del “risultato dell’ingegno umano” per riconoscere la protezione legale delle opere realizzate con l’ausilio dell’IA si presta nella pratica a interpretazioni contrastanti. Infatti costituiscono le materie del contendere delle molte cause in corso a livello internazionali. Sarebbe opportuno invece prevedere indicazioni più concrete, per esempio il divieto di usare il l’apporto di lavoratori e collaboratori per addestrare soluzioni di Intelligenza Artificiale senza riconoscerne adeguato compenso.
Altro nodo cruciale è rappresentato dalle risorse pianificate. Il fondo da un miliardo di euro gestito tramite CDP Venture Capital, seppur significativo sulla carta, appare modesto se confrontato con gli investimenti previsti da altri Paesi europei. La Francia, per esempio, ha annunciato oltre 100 miliardi di euro in investimenti in IA per il prossimo decennio. Ha una strategia chiara di attrazione dei talenti e creazione di ecosistemi industriali avanzati. La Germania, dal canto suo, ha puntato su poli di eccellenza e collaborazioni pubblico-private con budget molto superiori. L’Italia rischia così di restare indietro non per mancanza di visione, ma per l’insufficienza delle risorse dedicate e per la dispersione degli sforzi.
L’eccesso di regolamentazione
Molti articoli dicono cose assolutamente ragionevoli ma rischiano di essere ridondanti e inutili. Anzi a pensar male si possono prestare alle strumentalizzazioni. Si pensi all’articolo 13 che dice che l’utilizzo dell’IA nelle professioni intellettuali è finalizzato al solo esercizio delle attività di supporto e strumentali. Sembra una ovvietà. Si vede forse la preoccupazione degli ordini professionali che IA abbassi i costi di entrata nelle professioni per i giovani che sanno usare IA?
Era proprio il caso di scrivere un disegno di legge italiano quando c’è già un regolamento europeo? Il rapporto Draghi critica l’eccesso di regolamentazione dell’Europa che rallenta l’innovazione. Almeno c’è la giustificazione di cercare delle garanzie per i suoi cittadini. In Cina, tutti i dati sono dello Stato e ci fa quello che vuole. Negli USA, tutti i dati sono del mercato e ci fa quel che vuole.
Ogni regola, almeno per le piccole imprese, costituisce un costo. Per le grandi società come Facebook, Google etc. costituisce una minaccia. Più di una volta sono state multate in Europa per l’uso scorretto dei dati. Ma in tutto questo cosa può mai aggiungere un DDL italiano?
Pubblicato su Il Foglio il 07.05.25