Rafforzare il sistema contrattuale
MARCO LEONARDI
Negli ultimi dieci anni, il dibattito sul lavoro si è concentrato con insistenza sulla necessità di espandere la contrattazione di secondo livello attraverso nuove norme e incentivi fiscali. Si sono fatti passi da gigante. La normativa è ancora quella del 2016 ma l’estensione è molto migliorata e la soddisfazione di chi la pratica anche. Tanto è vero che non saprei come si potrebbe migliorare quella normativa se non nel dettaglio.
Ma, si è sempre saputo, l’Italia è fatta di micro-imprese. Nel mondo dei servizi significa milioni di realtà economiche (oltre 4 milioni di imprese sotto i 10 addetti) che non faranno mai contrattazione di secondo livello. Per queste imprese, il contratto collettivo nazionale è l’unico riferimento salariale e normativo.
Se questo è vero, allora si impone una seconda constatazione, ancora più urgente dopo l’onda lunga dell’inflazione 2022–2023. La debolezza vera del nostro sistema contrattuale non sta nel secondo livello, ma nel primo. La contrattazione collettiva nazionale, dalla riforma del 1993 e poi con gli accordi del 2001 e 2008, ha un obiettivo chiarissimo: garantire la tenuta del potere d’acquisto dei salari nominali. Un obiettivo che negli ultimi anni, in particolare nel settore dei servizi e nel pubblico impiego, è stato clamorosamente mancato.
È necessario tutelare il potere d’acquisto
Questo non significa che il sistema vada rovesciato. La scelta – del tutto razionale – fatta trent’anni fa fu quella di abbandonare la scala mobile e introdurre un meccanismo di indicizzazione ex-ante, cioè basato sull’inflazione prevista, non su quella a consuntivo. Un sistema che deve essere mantenuto. Tutela i salari nel medio periodo senza scatenare la rincorsa tra prezzi e salari. Tuttavia, quando l’inflazione reale eccede sistematicamente quella prevista, il sistema rischia di non funzionare più. E questo è esattamente ciò che è successo tra il 2022 e il 2023.
Il risultato è che in molti comparti – dai servizi privati molto più che nell’industria dove il sistema ha tenuto – i salari reali sono crollati. L’obiettivo di tutelare il potere d’acquisto non è stato raggiunto né lo sarà nel prossimo futuro. Perfino la Banca d’Italia, che è la prima a essere interessata al controllo dell’inflazione, lo ha sottolineato.
Salvare il senso della contrattazione nazionale
Serve un correttivo di legge che potrebbe essere una clausola – inserita per via legislativa all’interno dei contratti collettivi. Dovrebbe prevedere, dopo un certo numero di anni di ritardo nella chiusura dei rinnovi o di perdita cumulata del potere d’acquisto, un meccanismo di recupero minimo garantito. Un elemento di garanzia che rafforzi la funzione salariale del contratto collettivo nazionale e che, naturalmente, potrebbe essere superato o sostituito da accordi di secondo livello ove presenti. Ma che, in assenza di tali accordi, eviti che il contratto nazionale si svuoti di significato.
Questo tema è particolarmente evidente oggi anche in uno dei settori storicamente più avanzati dal punto di vista contrattuale: la metalmeccanica. Il contratto nazionale dei metalmeccanici è stato a lungo considerato un modello: chiarezza di regole, tempi certi, struttura salariale trasparente. Ma oggi anche quel contratto stenta a chiudersi. Ciò mette in luce un elemento cruciale che troppo spesso viene sottovalutato. La contrattazione nazionale deve tenere insieme esigenze molto diverse. Le grandi imprese possono permettersi aumenti robusti e hanno interesse a evitare scioperi. Le piccole aziende invece spesso non sono colpite da scioperi e tendono a resistere agli aumenti salariali. La tensione tra questi due mondi rischia di paralizzare anche i contratti più avanzati.
Tuttavia, non possiamo fare a meno della contrattazione collettiva nazionale. Per una ragione culturale prima ancora che economica: l’Italia è un Paese in cui l’uguaglianza dei salari all’interno delle aziende è un valore profondo e condiviso. Negli Stati Uniti i contratti individuali dominano e le differenze salariali sono accettate come espressione del mercato. In Italia l’idea che due lavoratori simili possano essere pagati in modo diverso – a parità di mansione – è ampiamente rifiutata.
Scongiurare un corto circuito
In questo contesto, emerge la seguente dinamica: le imprese spesso preferiscono non assumere, o assumere a condizioni minime, pur di non dover alzare i salari di chi è già in organico. Il contratto nazionale, in questa prospettiva, diventa una sorta di alibi per non affrontare il tema del salario dei nuovi assunti. Dovrebbero essere pagati di più, ma non lo sono perché ciò comporterebbe aumenti a cascata. È un corto circuito che blocca l’occupazione, la mobilità e gli aumenti selettivi. Nelle piccole imprese questi avvengono comunque in nero. Produce un paradosso tutto italiano: le imprese non trovano lavoratori, ma i salari non crescono.
Senza rinunciare, anzi rilanciando i contratti di secondo livello, serve però rafforzare e correggere i contratti nazionali. Il contesto economico potrebbe avere altri episodi di inflazione e non può più scaricare tutto l’aggiustamento sul lavoro salariato.
Pubblicato su il Foglio il 19.06.25