La riduzione dell’orario di lavoro
MARCO LEONARDI
Esperimenti di riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario si moltiplicano in Europa, da ultimo in Spagna, dove tuttavia la proposta sembra destinata a naufragare. La riduzione dell’orario è una storica bandiera della sinistra. È giusto che se ne torni a discutere: si tratta infatti di un trend secolare, che comunque avverrà. Tanto vale che la politica provi a governarlo.
Il centrosinistra ha depositato una proposta di legge in Parlamento, ma finora non è mai stata calendarizzata. Il tema è complesso, e il tempismo – come spesso in politica – è tutto. Il salario minimo è popolare perché intercetta un problema reale e urgente. I salari sono stagnanti da vent’anni. La contrattazione è debole e l’inflazione ha eroso il potere d’acquisto. La riduzione dell’orario di lavoro, al contrario, rischia di sembrare scollegata dalle preoccupazioni immediate dei lavoratori. Quando l’occupazione è alta e la priorità è guadagnare di più, l’idea di lavorare meno può sembrare fuori fuoco. Anzi, per molti lavoratori – soprattutto quelli a basso reddito – la domanda non è come lavorare meno, ma come lavorare di più e meglio retribuiti.
La diseguaglianza nell’accesso ai benefici immateriali
Un’imposizione generalizzata delle 35 ore settimanali a parità di salario rischia di scontentare proprio chi oggi desidera aumentare le ore e il reddito. Il secondo lavoro è complicato e fiscalmente sfavorevole. Recuperare ore in altri impieghi, magari al nero, non è certo una soluzione desiderabile. In altre parole, la riduzione dell’orario può penalizzare proprio chi ha bisogno di lavorare di più.
Un precedente importante viene dalla Francia. Ha ridotto l’orario per legge due volte, compensando le imprese con sussidi. Ha trasformato parte delle ore in ferie o straordinari. Ma gli effetti non sono stati quelli attesi. Uno studio recente (Roulet et al.) mostra che la misura ha aumentato il part time, con esiti controversi. In Italia il part time involontario è uno dei problemi principali del mercato del lavoro. Replicare quel modello sarebbe un rischio.
È ormai chiaro che ridurre l’orario per legge non aumenta automaticamente l’occupazione ma può migliorare le condizioni di lavoro. Oggi il vero nodo è la diseguaglianza nell’accesso ai benefici immateriali del lavoro. Lo smart working, per esempio, è ormai la norma per molti impiegati, ma resta inaccessibile per operai, commessi, autisti. Eppure, secondo diverse ricerche, i lavoratori sono disposti a “pagare” fino al 5% della retribuzione per ottenere due giorni di lavoro da remoto alla settimana. Per chi non può ottenerlo, una riduzione di orario retribuita potrebbe rappresentare un risarcimento simbolico importante.
Il Fondo Nuove Competenze per la riduzione dell’orario di lavoro
La legge, però, è uno strumento rigido. Meglio puntare sulla contrattazione collettiva, anche se bisogna essere onesti. Senza un sostegno legislativo, i sindacati – specie nelle piccole imprese – avrebbero scarso potere contrattuale. Germania e Belgio sono riusciti a ridurre l’orario affidandosi a sindacati forti e grandi imprese. Ma l’Italia è un paese di microaziende, dove la rappresentanza sindacale è spesso assente. Serve uno strumento più flessibile.
Un’alternativa concreta esiste già: il Fondo Nuove Competenze. È un fondo pubblico, introdotto nel 2020. Finanzia le ore di formazione dei lavoratori, pagando direttamente i salari durante quelle ore. Di fatto, già oggi finanzia la riduzione dell’orario a parità di retribuzione. Nato per reagire alla crisi pandemica, ha funzionato bene e potrebbe diventare la base per una politica strutturale. È applicabile a singole imprese, prevede il coinvolgimento del sindacato. Ha costi tracciabili, oggi sono circa un miliardo all’anno. Può estendersi anche alla formazione per i giovani.
Soprattutto, ha già funzionato. Ed è stato proprio promosso da quel campo politico che ora propone una legge sulla riduzione dell’orario. Perché allora non ripartire da lì? Rendere il Fondo permanente, ampliarne l’utilizzo, costruirci sopra nuovi strumenti di flessibilità, senza irrigidire il sistema con un’imposizione legislativa.
Evitare l’universalismo normativo
La proposta depositata dal centrosinistra va in questa direzione: promuove contratti collettivi con orario ridotto fino a 32 ore. Sono sostenuti da sconti contributivi per le aziende attraverso l’uso del Fondo Nuove Competenze. Bisognerebbe però limitare gli aiuti alle occupazioni manuali o “non smartabili”. Non si può regalare soldi a molte ricche aziende che già lo fanno da sole. La proposta di legge prevede anche una fase finale. Dopo tre anni di sperimentazione e di monitoraggio, molto utile per capire chi e come usa la riduzione dell’orario, l’orario verrebbe ridotto per legge in alcuni settori.
È questo il punto più critico: l’universalismo normativo, che rischia di non tener conto della varietà delle condizioni produttive e delle esigenze dei lavoratori. Meglio una strada graduale e negoziata. La riduzione dell’orario è un obiettivo di lungo periodo, ma va costruita passo dopo passo, senza feticismi ideologici e tenendo conto delle priorità dei lavoratori di oggi.
Pubblicato su il Foglio il 27.06.25